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Immagini e intelligenze artificiali


In questo nuovo articolo parliamo un po’ di immagini e intelligenze artificiali con Gianluca Garofalo, socio di Autori di Immagini e art director di C.atwork Agency, che condivide con noi una riflessione utile ad interpretare i grandi cambiamenti che avvengono in ambito creativo.

L’Uomo, come specie, vive la sua evoluzione in stretta connessione con il susseguirsi di incrementi della sua tecnica, in modo strettamente connesso con la sua genetica, fin dal primo Homo sapiens apparso sulla terra. l’Homo sapiens è una specie tecnica.

Un leopardo africano, per poter uscire dal suo ristretto habitat e spostarsi in aree più a nord, più fredde, ha dovuto attendere il verificarsi di specifiche condizioni genetiche.

Ha dovuto continuare a riprodurre il suo DNA fino al momento in cui, in seguito a un errore di copia biochimica, il caso lo ha finalmente dotato del gene giusto. Il caso della mutazione incontra e favorisce la necessità di spostarsi.¹

Il leopardo ha dovuto aspettare che, dalla combinazione dei suoi geni, venisse fuori un leopardo delle nevi, con una pelliccia in grado di permettergli una vita nelle fredde terre del nord.
l’Homo ha cacciato il leopardo, si è coperto con la sua pelliccia, e ha iniziato la sua migrazione dall’Africa verso il resto del pianeta.

La tecnica è “in senso astratto e generico, l’insieme di attività pratiche basate su norme acquisite empiricamente, o sulla tradizione, o sull’applicazione di conoscenze scientifiche, che sono o sono state proprie di una data situazione sociale e produttiva, di una data epoca, di una data zona geografica.”²

Stanley Kubrick, nel suo “2001: A Space Odyssey”, ci mostra un gruppo di scimmie in un ambiente ostile che, attraverso il contatto con il misterioso monolito, osservando delle ossa non vede più una carcassa, ma l’arma. Si risveglia l’intelligenza della tecnica, ciò che renderà quelle prede meno prede.

Vede la caccia, ma anche la guerra.
Quel femore, improvvisamente, diventa qualcosa che può essere usato per ottenere qualcos’altro. Può essere lo strumento per sopravvivere, per evolvere, ma anche l’arma per uccidere il proprio simile.

In quei minuti di cinema riconosciamo ciò che, antropologicamente, ci ha portato fino agli attuali traguardi, tra incrementi tecnici ambigui e sviluppi reali, tra invenzioni che potrebbero annientare in un soffio incandescente l’intera nostra specie, e sistemi che ci permettono diagnosi accurate, cure e, soprattutto, cultura.

La neutralità della tecnica

Martin Heidegger, uno dei più importanti filosofi della nostra modernità, nel 1954 dà alla stampa un saggio cruciale, che scardina uno dei pregiudizi più radicati del nostro immaginario, quello che ci fa pensare che una tecnica sia buona o cattiva in base all’uso che ne facciamo.

In altre parole, quella convinzione che ci portiamo ben incastrata nella testa, che la tecnica sia solo tecnica, senza qualità, neutra.

In “La questione della tecnica”, Hidegger ci mostra che questa idea è, al contrario di quanto si possa credere, completamente fuori fuoco.

“téchne non è solo il nome del fare artigianale e della capacità relativa, ma anche dell’arte superiore e delle belle arti. La téchne appartiene alla produzione, alla pòiesis, è qualcosa di poietico [Poietisches].”⁴

Già questa piccola, grande, verità dovrebbe renderci chiara l’insostenibilità della concezione della neutralità della tecnica.

Come si può definire neutrale qualcosa che, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, osservando degli aspetti più autentici e fondamentali della sua realtà, è una metafisica⁵ con una sua propria ontologia⁶?

“Ma siamo ancora più gravemente in suo [dell’essenza della tecnica]
potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti
questa rappresentazione, che oggi si tende ad accettare con particolare
favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza
della tecnica [considerarla neutrale equivale infatti a considerarla
senza essenza]”. (qt, p. 32)

Chiedo scusa per questa digressione filosofica, ma se è vero che proprio la filosofia è quel qualcosa, quella tecnica, che ci permette di indagare la realtà, il mondo che ci circonda, di interrogarci e, a volte, di ricevere risposte, non esiste altro percorso che possa mostrarci, davvero, cosa abbiamo davanti quando definiamo intelligenza artificiale (AI, Artificial Intelligence) un sistema di calcolo a calibrazione statistica.

La prima tecnica dell’Homo, quella che ancora condivide con la gran parte del regno animale, è quella del linguaggio legato al suo corpo, alla sua fisicità. Un codice formato da segni gestuali, mimici e sonori. Gesti, versi, sguardi, posizioni, contatti.

Forse, la seconda è proprio quella che vede l’uso di uno strumento per uno scopo, e anche questo, fino ad un certo punto, non è propriamente una nostra esclusiva.

Ad un certo punto, però, il linguaggio verbale fa un salto importante e passa dal mostrare al raccontare. Non è più una comunicazione legata al presente, ma comincia a riassumere il passato e a figurare il futuro.

Homo inizia a creare miti, a porsi domande sul suo essere e sul suo procedere, sulla sua connessione con il resto della realtà che lo circonda e con il suo agire.

Il disegno

Ad un certo punto, come accade ancora nel bambino nei suoi primi mesi di vita, Homo incontra la traccia, il segno, quel gesto portato attraverso uno strumento che, magicamente verrebbe da dire, lo identifica con la rappresentazione del sé e poi dell’altro.
Nasce l’immagine figurata, il disegno.
Lo strumento, la tecnica, è un manicum⁷, se non la mano stessa.

Le immagini diventano ciò che trasmette, che veicola, la cultura, supportate dalla trasmissione orale. Questa tecnica, unitamente alla scrittura, è quella che ha permesso all’Homo di diventare quello che siamo noi oggi.

La nostra cultura origina e si definisce, a partire dalla rappresentazione per immagini delle mandrie di animali da cacciare sulla roccia della grotta di Lascaux; dalla venere di Willendorf, legata al culto della madre terra, così simbolica nella sua abbondanza e nel colore rosso che la ricopriva, archetipico nel significare la vita e la morte insieme.

Si definisce nella vocazione votiva dei kouroi della Grecia arcaica e il legame che si instaura tra senso ed estetica. Nella statuaria dei miti della Grecia classica, tanto pregna di senso e identità da dover essere distrutta dai nemici di quel popolo, lasciandoci quasi soltanto delle copie.

Nella narrazione continua e costante della potenza di Roma, quella che faceva passare i prigionieri portati nella città eterna sotto un apparentemente inutile porta, l’arco di trionfo.

Chi, abituato a vivere in case di legno, senza aver mai visto che queste, non avrebbe pensato che quello di Roma fosse un potente governo inevitabile e, tutto sommato, anche giusto?

Così come l’invenzione dell’arco a sesto acuto, a spinta verticale, quella che permise di illuminare le cattedrali e mostrare alla moltitudine di credenti analfabeti l’orrore dell’inferno, i suoi diavoli e le sue punizioni, è la tecnica che ha permesso al cristianesimo di sigillare la sua supremazia in tutta Europa.

Così via fino alla letteratura illustrata, alla fotografia, al cinema, ai computer e ai nostri efficientissimi devices.

Il dislivello prometeico

A questo punto è interessante tornare un momento alla visione filosofica della nostra realtà.
Günther Anders, nel suo “Die Antiquiertheit des Menschen”⁸, pubblicato in Germania nel 1956, ci dà una chiave di lettura del rapporto esistente tra l’Uomo e la sua tecnica.

Emerge un concetto che, a mio avviso, è veramente centrale per avere una visione chiara, libera da condizionamenti più o meno sotterranei, del momento che stiamo vivendo in relazione all’avvento delle AI.

Anders definisce il concetto di Uomo prometeico e di dislivello prometeico.
L’Uomo, con tutte le sue capacità, ad un certo punto risulta obsoleto rispetto alla nuova situazione tecnologica. Da un certo punto di vista, le tre rivoluzioni industriali hanno portato ad un superamento dell’essere umano.

Una facoltà, in particolare, risulta compromessa, quella che Anders definisce come immaginazione, riferendosi specificamente alla capacità di immaginare, di prevedere, le conseguenze derivanti dall’uso dei suoi prodotti, delle sue tecniche.

Il dislivello prometeico rappresenta dunque una asincronizzazione tra l’uomo e la sua stessa produzione tecnica, la quale ha raggiunto una tale velocità che lo stesso sentire resta indietro. Ciò significa, per dirla con le parole dello stesso Anders: «Che, nel sentire, siamo inferiori a noi stessi».

“La nostra percezione non è all’altezza di quanto produciamo: come sembrano innocui i contenitori del gas Zyklon B — li ho visti ad Auschwitz — con i quali sono stati distrutti milioni di uomini! E come sembra pacifico un reattore atomico con il suo tetto a cupola!”⁹

Siamo in grado di vedere le immagini che vengono fuori dai nostri prompt, ma non abbiamo la più pallida idea di come queste siano generate.

Il calcolo avviene a livello sub-simbolico e questo significa che, per fare una similitudine, se aprissi il cofano di una di queste AI vedrei fili di luce, scintille, ombre, aloni, ma non sarei in grado di associare a nessuno di questi un’azione specifica della macchina.

Non ne sarebbe in grado neppure il meccanico. Neppure il produttore stesso, o il tecnico che ha progettato e costruito la macchina. Manca la relazione tra simbolo e effetto, tra comando e azione.

Ogni tecnica nasce per rispondere a una domanda dell’Uomo. Così come quel femore ha risposto alla domanda di sopravvivenza, di sicurezza e di sopraffazione delle scimmie di Kubrik, le intelligenze artificiali rispondono a una loro domanda di partenza o, forse più precisamente, a delle domande di partenza.

Se da un lato l’Uomo chiede di avere maggior precisione nella previsione di incidenti aerei, o di maggior velocità nella diagnosi di un tumore, alle AI predittive, cosa chiede alle AI generative e alle immagini? Cosa chiede a questi sistemi significanti che hanno veicolato, per millenni, la sua cultura?

Io non credo che la risposta a questa domanda possa essere quella di ottenere una maggiore velocità di produzione. Non credo neppure che possa essere quella di una maggiore accuratezza o definizione in termini di virtuosismo della raffigurazione.

Soprattutto, non credo che questi aspetti possano davvero fornire dei vantaggi concreti nella diffusione della nostra cultura di specie e di società.

Anzi, da questo punto di vista succede qualcosa di molto particolare e preoccupante: assistiamo all’inevitabile svuotamento e sostituzione di senso, nelle immagini che utilizziamo quotidianamente.

Togliamo il senso che avremmo costruito con la nostra conoscenza del linguaggio visivo, simbolico, iconico, percettivo, culturale, sostituendolo con il pregiudizio algoritmico e la calibrazione statistica del proprietario della piattaforma che ci offre il servizio di generazione di immagini.

Non costruiamo più l’immagine seguendo il nostro progetto, ma scegliamo immagini confezionate per assecondarci, generate a partire da una calibrazione regolata per restare in quella sezione centrale della curva di Gauss che rappresenta, nella distribuzione statistica, la zona di “apprezzamento medio” della popolazione presa in esame.

Gli estremi sono esclusi, indesiderati, politically uncorrect. Siamo di fronte a un’immagine omologante e discriminante per sua natura.

L’algoretica

Davanti alla corsa di queste aziende nell’incrementare i loro sistemi, corsa che ha deliberatamente aggirato quelle leggi esistenti per proteggere la proprietà intellettuale delle immagini, possiamo davvero porci come davanti ad un progresso?

Siamo così certi di poter parlare di “democratizzazione dell’arte”? Siamo così sereni nel considerarle dei mezzi neutri che ci permettono di “difendere la nostra creatività dal nuovo luddismo contro le Intelligenze Artificiali”?

Non sarebbe più naturale e logico porsi il dubbio che ad intervenire sulla nostra cultura, quella che da sempre veicoliamo attraverso le immagini, siano aziende che non sono in grado di garantirci un mezzo del quale possiamo essere veramente padroni?

Delle immagini veramente nostre? Un contenuto, un senso, non viziato dal pregiudizio algoritmico dei loro sistemi, non stereotipato, non vuoto del nostro e pieno del loro?

Credo che l’unico modo possibile per trasformare questo incremento tecnologico in un vero e proprio progresso, utile e positivo per la nostra società e per la nostra specie, sia una opportuna e attenta governance.

Il prof. Paolo Benanti ha coniato un termine per questo: algoretica.
Io credo, da un lato, che abbiamo davvero bisogno di un’etica nell’algoritmo, nell’utilizzo delle AI e delle immagini da esse generate.

Da un altro lato, credo che sia necessario concentrarsi e salvaguardare la semantica delle immagini.

Pablo Picasso, quando nel 1937 dipinge il suo Guernica, non imita una forma, ma ne costruisce una, non restituisce la percezione della morte, ma la cultura, la sapienza che abbiamo di essa.
Non asseconda il gusto estetico di una società, lo distrugge per costruirne uno nuovo.

Buona navigazione!

 

LEGENDA
1 “Il caso e la necessità”. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Jacques Monod, Mondadori 1996 – “È il saggio che ha suscitato nel mondo scientifico e filosofico il più vasto dibattito dopo LOrigine della specie di Darwin.

Muovendo dalle ultime scoperte della biologia molecolare e del DNA, è dedicato non solo ai biologi, ma a tutti coloro che si interessano alle prospettive più originali della cultura moderna e ai rapporti delle scienze della vita con il pensiero filosofico.” Luciano Franceschetti per UAAR.
«Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità» – Democrito.

2 Tècnica s. f. [femm. sostantivato dellagg. tecnico]. Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

3 “La questione della tecnica”. Martin Heidegger.  goWare, 2017

4 poiètico agg. [dal gr. ποιητικός, der. di ποίησις: v. poiesi] (pl. m. -ci), non com. – Nel linguaggio filosofico, che produce, che crea: attività p. dello spirito. Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

5La metafisica è quella branca della filosofia che, andando oltre gli elementi contingenti dell’esperienza sensibile, si occupa degli aspetti più autentici e fondamentali della realtà, secondo la prospettiva più ampia e universale possibile. Essa mira allo studio degli enti «in quanto tali» nella loro interezza. Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

6 L’ ontologia è la scienza della conoscenza degli oggetti in sé, comprendente, come “filosofia […] prima”, tutti i principi della conoscenza; si qualificano con l’agg. ontològico i concetti e le nozioni che ne derivano. Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.

7 Il prof. Paolo Benanti definisce come manicum quello strumento ancora perfettamente indagabile nella sua azione, direttamente collegato alla mano come un “manico”.

8 Günther Anders – L’uomo è antiquato I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale [Bollati Boringhieri, Torino 2007]

9 G. Anders, Opinioni di un eretico, cit., p. 74.

© Testo e immagine nel banner di Gianluca Garofalo